L’attacco di Manchester, un déjà vu che stringe lo stomaco
Melissa Sonnino, Direttrice del Facing Facts Network, riflette sull’impatto dell’attacco di Manchester e su cosa significhi oggi per le comunità ebraiche.
Ho appreso dell’attacco da mia madre, proprio mentre stavo concludendo il digiuno di Yom Kippur. La notizia si è diffusa per passaparola, mentre la maggior parte degli ebrei era ancora in sinagoga a pregare, con telefoni e televisioni spenti per il giorno più sacro del calendario ebraico.
Le ore precedenti l’inizio della festa erano già state cariche di inquietudine. Dal 7 ottobre 2023, il senso di isolamento e di minaccia si è fatto sempre più forte per gli ebrei ovunque. La tempistica del viaggio della Global Sumud Flotila – il cui arrivo era previsto proprio per Yom Kippur, quando la maggior parte degli ebrei si disconnette dal mondo e le sinagoghe sono solitamente molto frequentate — aveva messo le comunità in massima allerta. Nessuno sapeva quali reazioni avrebbe potuto scatenare nella diaspora. Non è certo il modo migliore per prepararsi a una festa solenne. Non è il modo migliore per esercitare, da cittadina, il mio diritto alla libertà religiosa.
Non so spiegare con precisione cosa si provi quando una notizia del genere ci raggiunge: disperazione, smarrimento, come se l’asse del mondo si spostasse all’improvviso.
Quando ho saputo che era accaduto a Manchester, i miei pensieri sono corsi subito alle persone meravigliose che avevo incontrato anni fa durante un Limmud Festival¹. La gioia e l’energia di quella giornata mi sono rimaste dentro a lungo. Il Jewish Telegraph di Manchester scrisse persino un articolo su di me dopo l’evento. Avevo chiacchierato con molte persone, bevuto un drink con nuovi amici. È naturale sentirsi più scossi quando conosci persone e luoghi. Ma non è solo questo. Come ebrei, ci sentiamo connessi in tutto il mondo. Non condividiamo soltanto religione, tradizioni o cultura — con tutta la diversità e la ricchezza che l’ebraismo racchiude — purtroppo condividiamo anche una storia di sofferenza e resilienza. I crimini d’odio sono crimini-messaggio: l’uccisione di un ebreo è un messaggio a tutti gli ebrei, ovunque.
Il mio cuore è con tutti gli ebrei britannici e con le persone straordinarie che lavorano per proteggere le comunità. Nel mio lavoro ho avuto il privilegio di collaborare da vicino con il Community Security Trust (CST). Rappresentano un punto di riferimento nella prevenzione dei crimini d’odio, nella raccolta dati e nelle risposte alle minacce antisemite. All’epoca quello che mi colpì non fu solo il livello di professionalità e l’infrastruttura impressionante costruita grazie ad anni di lavoro, ma soprattutto l’impegno nel costruire ponti con altre comunità e nello stabilire canali di comunicazione con governi e autorità pubbliche. Si può dire senza esagerare che il CST, insieme al governo britannico, abbia fissato lo standard per la cooperazione multi-stakeholder in Europa nel campo dei crimini d’odio.
Nelle ultime 24 ore ho ascoltato le dichiarazioni pubbliche dello staff del CST e di rappresentanti di altre organizzazioni ebraiche britanniche. Mi hanno colpito la dignità e le parole misurate e sensate, pronunciate in un momento di lutto e dolore.
Qui in Italia, dove vivo, la notizia ha ricevuto pochissima attenzione. TV e giornali erano concentrati quasi esclusivamente sulla flottiglia. A parte due amici stretti, nessuno tra i miei conoscenti non ebrei si è fatto vivo per chiedere come stessi o come stesse la mia comunità. Questo silenzio dura ormai da tempo.
Quel silenzio mi ha riportato alla memoria l’attentato del 2014 al Museo Ebraico di Bruxelles² e il malessere con cui ho convissuto per i mesi successivi. All’epoca vivevo lì e ricordo quanto poco sembrasse importare alla gente che quattro vite fossero state spezzate. Due delle vittime erano israeliane, e in qualche modo questo sembrò bastare a molti per liquidare la tragedia. Ma il punto non è questo. Quando si spara in un museo ebraico, il bersaglio non è soltanto chi è colpito: è l’intera comunità che quel luogo rappresenta. È un crimine d’odio progettato per inviare un messaggio di intimidazione e per sovvertire la normalità.
Quel magone è tornato dopo l’attacco di Manchester, e da allora non mi ha più lasciato.
L’impatto di eventi simili sulle comunità ebraiche nel mondo è difficile da comprendere se non lo si vive in prima persona. Il giorno dopo l’attacco ho portato i miei figli alla scuola ebraica con il cuore pesante, ma convinta che fosse la cosa giusta da fare: continuare a vivere pienamente, come cittadini di questo Paese. Eppure è stato doloroso vedere la scuola mezza vuota, la sicurezza al massimo livello, i genitori evitare chiacchiere al cancello. L’ansia della ripresa, le mani strette forte nelle loro. “Per favore, non correre dal tuo amico laggiù, non oggi.”
Le comunità ebraiche stanno assistendo ad una normalizzazione dell’antisemitismo sempre più pervasiva. In alcuni ambienti online, sia a sinistra che a destra, è persino glorificato. L’antisemitismo in rete si diffonde senza freni, amplificato da social polarizzati che diventano motori di normalizzazione per ogni forma di razzismo. Abbiamo fallito nel contenerlo. E ora sembra ambientale, come se persino l’aria fosse più difficile da respirare.
I crimini d’odio non avvengono nel vuoto. La retorica violenta online e la normalizzazione dell’odio creano il terreno fertile in cui cresce la violenza motivata dal pregiudizio. Sapevamo che dopo il 7 ottobre il rischio di attacchi contro le comunità ebraiche era aumentato. Il CST e molte altre organizzazioni in Europa hanno fatto un lavoro straordinario di prevenzione, monitorando e analizzando gli episodi di odio online e offline. Le misure di prevenzione vengono costantemente adattate per rispondere ai rischi crescenti. Eppure ieri quella stessa paura che avevamo così duramente cercato di anticipare e contenere si è materializzata. Ed è devastante.
Ho il cuore a pezzi. Sento il dolore degli ebrei di Manchester e di tutti coloro che lavorano instancabilmente per proteggere le loro comunità. Non riesco neppure a immaginare cosa stiano provando adesso.
Oggi mi aggrappo ai pochi messaggi che ho ricevuto da amici e colleghi non ebrei. È da lì che voglio ripartire domani. Perché per me un domani c’è, a differenza di coloro cui la vita è stata interrotta brutalmente. Devo questo ai miei figli, e a chi ha perso la vita, provare almeno a rendere il mondo intorno a me un posto migliore. Non so ancora cosa significhi davvero, né come una simile proposta possa prendere forma concreta. Quello che so è che la connessione umana è ciò che conta di più. Interazioni autentiche e profonde sono possibili sia offline che online, ma il processo deve essere ripensato. Dobbiamo tornare alla vera ragione per cui cerchiamo gli altri: non per confermare ciò che crediamo già, ma per riaprire canali di conoscenza, per esporci — anche con disagio a volte — a prospettive diverse, e per abbracciare la possibilità di arricchirci attraverso di esse.
² https://tg24.sky.it/mondo/2019/03/12/Ergastolo-attentatore-museo-ebraico-bruxelles
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